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La lezione che arriva dalla Coppa Davis: in Italia il talento sportivo è sacrificato per il calcio


Non siamo più il paese solo del football e del ciclismo. Eccelliamo ovunque grazie a idee innovative e coraggio. Gli altri sport meriterebbero più tifo, interesse e soldi rispetto a quelli investiti per il calcio (che vince meno).

Non si sa per quale motivo, perché tutto in Italia gira intorno al calcio, dai soldi all’interesse, dal tifo all’attenzione mediatica, ma mai come in questo momento storico abbiamo un talento sportivo diffuso che prelude dal calcio, anzi che proprio nel calcio si ingrigisce e ci dà poche speranze anche per il futuro.

Il calciocentrismo sfrenato in cui abbiamo vissuto da sempre e che viviamo ancora oggi non ci ha negato la fortuna/capacità di creare 40 medaglie olimpiche nell’ultima edizione di Tokyo 2020, avere un due volte campione del mondo in MotoGp, avere punte enormi nelle discipline invernali con vista su Milano-Cortina 2026 e vincere una Coppa Davis, per citare solo gli ultimissimi eventi.

E continuando a parlare di ultimi anni non si possono dimenticare le nazionali di volley campioni del mondo e d’Europa, mentre ammiriamo ogni weekend il campionato più bello al mondo, la pallanuoto in cui abbiamo la squadra migliore del globo, l’atletica leggera che è tornata di livello mondiale seguendo il coraggio di Tamberi e l’exploit di Jacobs, il ciclismo su pista in cui abbiamo Ganna e tanti altri campioni, la ginnastica artistica sia femminile che maschile e quella ritmica ai massimi livelli dopo decenni, una squadra di basket senza grandi campioni che non molla un centimetro, infine il nuoto in cui abbiamo una squadra mai avuta nella storia.

Siamo la nazione che ha l’atleta che corre più veloce e salta più in alto, che gioca meglio a tennis, che continua a fare grandi cose nei “nostri” sport, come la scherma, il tiro a volo, il canottaggio.

Dopo questo excursus anche fin troppo rapido, perché abbiamo messo tra parentesi sport come arrampicata, canoa e judo, dove possiamo fare grandi cose a Parigi, viene naturale una domanda: come mai nei due sport “popolari”, il calcio maschile e il ciclismo su strada maschile, i due sport che hanno raccontato la nostra nazione e in cui siamo sempre stati all’avanguardia con grandi campioni e grandi squadre, oggi siamo così in crisi?

Da una parte ci sono due Mondiali saltati (con un Europeo vinto, importante e inatteso), le squadre di club con pochi picchi negli ultimi dieci anni, dall’altra nessun ciclista in grado di impensierire i big nelle grandi corse a tappe e nemmeno nelle classiche di un giorno se tutto fila liscio per i vari Pogacar ed Evenepoel del caso. Questi sono fatti. Ci sono da capire le cause.

Quando eravamo grandi, intorno a calcio e ciclismo giravano tanti soldi e questo conta. Ma non si spiega tutto con la nostra debolezza economica soprattutto rispetto a certi nuovi grandi ricchi.

Se pensiamo al calcio, gli Anni ’80 sono stati in Italia la tempesta perfetta: eravamo la quinta economia al mondo e sono arrivate nel nostro campionato idee innovative. Alcune le abbiamo pensate noi, vedi Sacchi, alcune ce le hanno suggerite i grandi campioni che compravamo (Maradona è stato comprato da una squadra di metà classifica).

Senza soldi non vengono più i campioni, ma quello che fa male è che abbiamo perso anche le idee. In questi anni di calcio e di ciclismo su strada abbiamo visto pochissimo coraggio tecnico, pochissimo coraggio tattico e pochissime idee gestionali e imprenditoriali in grado di dire qualcosa di nuovo. Questo è quello che non abbiamo più e che invece in altri sport, soprattutto i tecnici italiani hanno portato in maniera diffusa e capillare.

Da una parte quindi è giusto sperare nel ritorno delle idee e del ritorno a un nuovo grande livello per quel che riguarda il calcio e il ciclismo, ma allo stesso tempo non possiamo più considerare minori tutti gli altri sport, le discipline dove oggi tutti guardano a noi, ammirandoci. Servono molto più interesse, tifo e soldi per gli sport che fanno grande l’Italia. Non basta più una pacca sulla spalla e la penultima pagina sui giornali.


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